La richiesta di processo disciplinare per dieci magistrati, arrivata un anno dopo l’esplosione dello scandalo Palamara, rischia di avere solo l’effetto del cerotto su una piaga se la politica non porrà mano a una radicale riforma della giustizia, quella cioè che questo governo a trazione giustizialista non farà mai. Il Pg della Cassazione ha parlato di “punto di non ritorno”, ma le controriforme di Bonafede – dalle intercettazioni a quella sull’elezione del Csm che prevede il doppio turno – rafforzano infatti proprio lo strapotere sia delle procure che delle correnti. Un rimedio che aggrava il male, insomma. Basta leggere le ultime interviste di Palamara, dominus per un decennio della magistratura e appena espulso dall’Anm, per capire quello che in realtà tutti sapevano, ossia che in Italia l’obbligatorietà dell’azione penale è solo una finzione che consente alle Procure di decidere se, come e chi indagare, quali indizi considerare e quali no, quali intercettazioni utilizzare e quando accendere o spegnere i micidiali trojan. Con un’aggravante decisiva: l’assoluta prevalenza del “partito delle procure” nella gestione dell’Anm e del Csm, che controlla le carriere di tutti i magistrati, anche di quelli giudicanti, potendo così condizionare anche l’esito di certe sentenze. Un cortocircuito che ha steso una pesante ombra sulla credibilità della giustizia, scesa infatti ai minimi termini, e la storia recente insegna che un segmento delle toghe ha agito come strumento destabilizzante per gli stessi equilibri democratici.
I Padri Costituenti avevano previsto che il Csm, organo di rilievo costituzionale, avesse una componente togata e una laica, mettendo quindi in conto che ci fosse un rapporto e un dialogo fecondo tra magistratura e politica, ma non avevano certo immaginato che il Csm sarebbe retrocesso a organo di rilevanza soprattutto politica dominato dalle correnti. Questo invece è purtroppo avvenuto, e lo scandalo delle ultime intercettazioni è solo l’ultimo anello di una degenerazione per troppo tempo tollerata e da cui sono emersi, appunto, il controllo di fatto dell’Anm sul Csm e il peso preponderante dei pm rispetto ai giudici, che ha portato a uno spregiudicato e impunito uso politico della giustizia, alimentato da fughe di notizie dalle procure, di gogne mediatiche orchestrate e di avvisi di garanzia divenuti condanne preventive ma definitive. L’unico vero rimedio sarebbe la separazione delle carriere e lo sdoppiamento del Csm, ma il disegno di legge di iniziativa popolare che li prevede giace in commissione e i Cinque Stelle hanno già presentato emendamenti soppressivi per non farlo nemmeno arrivare in aula.
Il degrado è arrivato a un punto tale che sortite inquietanti come quelle dell’ex pm De Magistris sono passate sotto silenzio, come se fosse acqua che passa sotto i ponti. Il sindaco di Napoli ha detto che la situazione è molto più grave di quella che si racconta sui giornali, e ha parlato di “un vero e proprio sistema criminale che mette insieme non più una minoranza, ma un numero significativo di magistrati e politici di volta in volta legati a mafie, massonerie deviate, affaristi e gruppi di potere”. Un quadro sconvolgente, anche se fosse vero solo in parte.
Siamo all’anno zero della giustizia, insomma, con la prescrizione di fatto abolita e con un ministro succube dell’ala giacobina della magistratura. Questa è l’Italia del 2020, quella in cui la morte di un galantuomo come l’ex Guardasigilli Biondi viene salutata sui social come quella del “ministro salvaladri”. Col paradosso finale che forse toccherà proprio all’ex burattinaio Palamara, comodo capro espiatorio su cui scaricare tutte le colpe, a scoperchiare i sepolcri imbiancati di questo invasivo sistema di potere.
di Riccardo Mazzoni