Europa, una comunità politica in formazione?
Al di là della cronaca – e del contorno propagandistico che la accompagna – nei prossimi giorni e mesi riceverà – a mio parere – un colpo fatale uno dei grandi equivoci politici e culturali degli ultimi decenni: quello di chi ha voluto credere che l’Europa fosse una comunità politica in formazione, un processo di avvicinamento che a un certo punto avrebbe saldato gli stati membri in nuovo patto fondativo: una nuova unità politica.
Questa idea scaturiva dalla certezza che acquis communautaire – cioè progressivo avvicinamento dei sistemi giuridici – sommato a vantaggi economici per tutti avrebbe generato il tessuto politico connettivo della nuova creatura. Sottotraccia (cioè al riparo di una retorica altisonante ma poco convinta), tutta la sotterranea filosofia europea è ormai di tipo materialistico: ha puntato molto sui vantaggi economici – unione doganale e accrescimento dei livelli di benessere – riconoscendo in essi il vero mastice del processo di unificazione.
Nonostante le smentite dei fatti (i livelli di benessere da venti anni divergenti, la tragica crisi greca) molti hanno continuato a credere, con più di un brivido di entusiasmo, che tale sviluppo puntasse a un gigantesco effetto geopolitico: la nascita sulla scena internazionale di un soggetto mai esistito nella storia, in grado di competere alla pari con “i grandi” del mondo. La pandemia è apparsa – per un attimo – quell’evento inatteso in grado di produrre il salto qualitativo tanto desiderato.
Prima di tornare all’attualità, ancora qualche considerazione sulla “dottrina” dell’Europa comunità politica. Questa vera e propria ideologia – poverissima di cultura e di realismo – è largamente penetrata nelle classi dirigenti, nelle comunità accademiche mainstream e nelle opinioni pubbliche di diversi paesi europei, in modo particolarmente profondo e ingenuo in Italia.
Inoltre, in una fase storica che sta volgendo al termine – quella della globalizzazione trionfante – l’equivoco sulla Europa comunità politica si è intrecciato con quell’altro, altrettanto grande, equivoco politico e culturale secondo cui gli stati-nazione e i connessi “interessi nazionali” sarebbero ormai reperti archeologici, addirittura posizioni meramente ideologiche, di segno passatista.
C’è – invero – nel sostenere contemporaneamente queste due visioni, una contraddizione poiché non si può essere incantati – insieme – dal credo cosmopolita e globalista e dal miraggio di una entità politica “Europa” che, in definitiva, non sarebbe altro che uno stato più grande, nato dalla cessione delle precedenti sovranità ma a favore di una nuova e più forte sovranità.
Ma, in ogni caso, qui non ha molto senso rilevare contraddizioni e incoerenze.
E’ un fatto che globalismo – cioè fiducia in un irreversibile e continua crescita della velocità degli scambi e dei flussi quale chiave del benessere collettivo – ed europeismo – quale affermazione della insignificanza e dell’inattualità delle identità nazionali della “vecchia” Europa – variamente intrecciati hanno rappresentato negli ultimi tre decenni coordinate di pensiero vincenti e largamente condivise.
L’irruzione della pandemia
La crisi del corona virus però cambia bruscamente questo panorama. E lo fa nel senso opposto a quello previsto.
Di crisi del tronfio globalismo si parla ormai in ogni casa. Si prefigurano scenari di riflusso di ogni sorta. E non solo da parte dei tradizionali critici (in Italia, Tremonti su tutti).
Quanto all’europeismo, la reazione delle cancellerie e delle istituzioni europee non assomiglia – agli occhi di nessuno – a quella improvvisa presa di coscienza di un sovrastante interesse comune che molti fiduciosi si attendevano. Gli avvenimenti a cui assistiamo non hanno nulla della solennità degli eventi “storici”. Non hanno la cadenza e la definitività che i numerosi morti provocati dalla pandemia sollecitavano.
Nulla di tutto ciò: tutta prosa. Fra l’altro, a causa delle difficoltà domestiche di rappresentanza di ciascuno dei principali protagonisti (leadership tutte in cattive acque), neanche abbiamo assistito almeno a un tentativo – un accenno – in questa direzione. Tutto accade in tono basso e dimesso.
In questo senso, l’avvento di Draghi sulla scena, magari coordinato ad un colpo di reni della leadership macroniana forse avrebbe potuto essere l’ultima chance che ancora poteva essere ragionevolmente auspicata ( CLICCA QUI ).
E invece assistiamo ad un altro film: in Germania la leadership della Merkel è talmente logorata da spingerla – ma solo per incapacità di costruire una successione – verso una esausta ricandidatura. I suoi toni sono in questi giorni impercettibili: silenzio quasi assoluto. Macron ha provato ad esibire per qualche giorno una retorica ancora meno credibile del solito: la sua intervista dello scorso 28 marzo è passata inosservata. Italia e Spagna non hanno battuto un colpo. La Presidente della Commissione ha paurosamente sbandato. In tal modo siamo finiti presto a compulsare e confrontare le prese di posizione su MES, MES alleggerito, Bond, ecc. di paesi come Finlandia, Austria, Slovenia, e via di questo passo. In una meschinità e in un tecnicismo che certo non scalda nessun cuore e forse accresce solo disillusione e cinismo.
E’ scontato per tutti che ciascuno fa – come sempre, più che mai – i propri calcoli.
Insomma, quello a cui assistiamo è piuttosto l’esito di un processo per cui, avendo perso la forza ideale delle origini – l’unità nella diversità, la solidarietà e la condivisione – l’azione dell’Unione europea si rivela oggi sempre più un “fabbricare” privo di senso, per riprendere le parole di Hannah Arendt, il modus operandi di tecnocrazie prive d’identità e di cultura, sovrapposto ad una forsennata competizione fra interessi di bottega contrapposti e tutti zoppicanti.
Oggi – rispetto a ieri – è solo più chiaro a decine di milioni di europei che l’UE non è – e non è destinata a diventare nel futuro– una comunità politica unitaria e che la somma dei suoi stati non riesce in alcun modo a esprimere una comune presenza di tipo geopolitico. Ma questo è un elemento di chiarezza, senz’altro positivo.
L’Europa per l’Italia
Viene anche definitivamente acclarato che l’Europa non è quel soggetto vagheggiato da molti che dovrebbe elargire all’Italia le virtù che le mancano (mentalità orientata al rispetto delle regole, prevalenza dell’interesse comune su quello particolare, parsimonia e correttezza nella gestione del danaro pubblico, ecc.): soggetto troppo debole per provocare effetti così profondi. Ancora meno L’Europa è quel soggetto che, con atto fondativo, assorbe nel suo più robusto organismo il gravoso debito pubblico che abbiamo accumulato in passato o quello che stiamo facendo in questi mesi per fronteggiare la pandemia (neanche per idea!). E soprattutto non è quel soggetto moderno e lungimirante che – con immaginazione politica – mette tra parentesi le priorità di breve termine di ciascuna economia nazionale per avviare un nuovo, grande motore finanziario e regolativo orientato alla crescita comune che traguardi il prossimo trentennio, dotando in tal modo l’Italia di quella proiezione strategica che le sue classi dirigenti non riescono a esprimere.
Acquisito tutto ciò, il nostro compito non diventa però quello di voltare le spalle all’Europa, indignati. Al contrario, dobbiamo interrogarci come e più di prima sull’Europa, in modo molto più serio, più informato, meno ideologico, meno strumentale di quanto fatto in passato.
L’Europa è un insieme di istituti e di sedi che vanno esaminati singolarmente e con realismo, alcuni dei quali hanno rappresentato una innovazione (e vanno potenziati e rilanciati), altri hanno deluso le aspettative e vanno radicalmente riformati.
Se vogliamo che l’Italia sia più presente nell’Europa di domani, è necessario ripartire da una rivisitazione del mito – che ha impedito un’analisi lucida delle derive geopolitiche dell’Unione – e da un nuovo bagno di realismo e di conoscenza.
I ceti politici nazionali, a partire dalla crisi politica del 1992-1994, hanno interiorizzato in modo strumentale (per mascherare la propria crisi) l’idea che il nostro Paese avesse perso ogni legittimazione a rivendicare, per storia culturale, peso economico, rilevanza del suo modello sociale, il suo essere parte integrante e decisiva del progetto europeo, ma che tale appartenenza fosse totalmente rimessa alla sua capacità di “fare i compiti a casa”, a conformarsi alle dominanza egemone dell’asse franco-tedesco.
Una cecità di analisi che ha ispirato scelte politico-economiche suicide di cui oggi cogliamo tutta l’inconsistenza: il mito dell’”austerità che fa crescere” o l’interpretazione della crisi greca come “migliore successo dell’euro”, propagandati negli anni della “cura Monti”.
E invece, prima di tutto, noi siamo Europa.
Interesse nazionale
Se vogliamo che l’Italia sia più presente nell’Europa di domani, la lente attraverso cui riesaminare questo insieme di istituti dovrà essere esattamente quella del tanto vituperato ”interesse nazionale” che (al di là di ogni ridicolo sovranismo) non è affatto una chiave di lettura retorica e astratta. Perché se “noi siamo Europa”, il nostro interesse nazionale non è in contraddizione con – ma è invece rafforzativo di – un europeismo responsabile e maturo.
Ad esempio, occorrerà seriamente riflettere – come sottolineato dagli autori della Lettera agli amici europei ( CLICCA QUI ) sul fatto che al secondo, duro confronto con una crisi economico-finanziaria globale l’Europa (e in particolare l’area euro) si stia rivelando particolarmente vulnerabile. E del perché l’Italia – fra tutti i paesi – sia fra i più vulnerabili. L’euro infatti ha privato ciascuno degli stati membri dell’autonomia monetaria, ma non si è dotato di una banca centrale che goda di poteri paragonabili a quelli di tutte le altre banche centrali, cioè prestatore di ultima istanza.
Tutto questo ha effetti catastrofici sull’economia del nostro Paese (ma non solo) e sono quindi necessarie riforme radicali che noi dovremo proporre con urgenza e nuova autorevolezza.
Ad esempio, è stata mai approfondita l’analisi dei nessi di causalità fra istituti e regole monetarie varate dall’UE, riduzione della produttività della nostra economia, progressivo restringimento della base produttiva e parallela crescita delle rendite di ogni genere che fanno oggi dell’Italia una “società neosignorile” (Ricolfi)? Se questi istituti e regole possono aver avvantaggiato temporaneamente qualche economia concorrente alla nostra, ciò non significa che “siano Europa”.
Un altro aspetto – collegato al precedente e quindi decisivo – è quello delle politiche di austerità (che non sono previste da nessun Trattato fondativo dell’UE). Al momento sono sospese ma – attenzione, leggiamo bene fra le righe – c’è stata una dichiarazione quasi incidentale del Vicepresidente della Commissione, Dombowskis che ha discretamente ma fermamente ricordato che la sospensione è temporanea e che tutti i vincoli (Two Pack, Six Pack) sono e rimangono le ricette a cui sono tenuti tutti gli Stati membri e a cui presto si tornerà. Ecco, questi ruvidi ammonimenti non possono essere accettati senza una reazione, quasi fossimo svogliati scolaretti che – per quieto vivere – fanno finta di non sentire il severo richiamo del maestro: essi probabilmente fanno parte di un modo di pensare che “non è Europa”.
L’Italia – piegata oggi dal corona virus ma molto di più dalle politiche di austerità – ha intenzione di ritornare a quei tavoli con le idee chiare e con l’intenzione di modificare regole che la soffocano? E di tornarci con gli uomini giusti?
O, sempre in attesa della mitologica mutualizzazione del debito e della nascita dell’Europa federale, riprenderemo a rinviare o sottovalutare questi appuntamenti?
Ma c’è un secondo terreno – altrettanto decisivo – che la nostra politica dovrà rapidamente imparare a praticare: l’Europa (ci insegna il realismo) è anche uno spazio geografico esposto alle tensioni geopolitiche del mondo contemporaneo. Ed è uno spazio non stabile. Anzi, la cui instabilità è aumentata dopo la fine della cd “guerra fredda” (come ammonisce L. Caracciolo e documenta puntualmente attraverso la rivista Limes) ed è destinata ad accrescersi ulteriormente a seguito della crisi del 2020, che comporterà nuove difficoltà economiche e nuovi appetiti per tutti. Anche per “Paesi leader” che sembrano molto forti, ma non lo sono poi così tanto, e che possono essere tentati di rafforzarsi – e di risolvere le loro difficoltà – ai nostri danni. Anche servendosi di un’idea vecchia di “Europa”.
Con uno impegno nuovo di concretezza dovremo collocarci in questo spazio, occupato, in primo luogo, da due vicini – Germania e Francia – con cui abbiamo non solo dense interdipendenze economiche e una altrettanto fitta rete di legami storici e culturali, ma anche una serie di tensioni competitive, dalle quali stiamo – da anni – uscendo sistematicamente perdenti. Questo processo, che è stato parallelo a quello di restringimento del perimetro della nostra economia, deve essere invertito e questo obiettivo deve essere posto in cima ad un’agenda politica di vera e propria “ricostruzione”. La nostra base produttiva – dopo la crisi – va rafforzata ed estesa: questo è nostra priorità e necessità vitale.
Il Presidente Conte propone la parola Recovery come chiave di volta dello sforzo che ci attende, ma prima che un “European Recovery” (che potrebbe rivelarsi deludente) occorre definire le coordinate di un “Italian Recovery Plan” che poggia su tre gambe: ampliamento della base produttiva interna, profondo reset della nostra azione in seno all’UE, ma anche chiara e rinnovata solidarietà atlantica, indipendentemente dalla titolarità della presidenza degli Stati Uniti dal gennaio 2021. Nessuna traccia di tutto ciò, per il momento.
Ma è invece questo il momento giusto per comprendere anche che presenza internazionale è un concetto che va ben al di là dell’economia e dell’interesse economico. Anzi, per un Paese come l’Italia – dotato di un soft power straordinario – il solo sospetto che taluni suoi governanti possano aver fatto confusione fra questi livelli (come purtroppo è accaduto con i recenti sbandamenti filo-cinesi dell’incredibile Ministro degli Esteri) dovrebbe costituire, da solo, elemento sufficiente per una definitiva condanna per inadeguatezza di quei governanti.
Il ruolo dell’Italia nel mondo non dovrà mai essere confuso con quello di un Paese ridotto alla questua e disposto a offrire spazi di penetrazione geopolitica in cambio di qualche vantaggio economico. Anche perché ciò significherebbe non aver capito nulla della pericolosità del mondo contemporaneo e della complessità del tema della collocazione geopolitica di un Paese come il nostro.
In conclusione, ci attendono tempi duri, ma non questo deve atterrirci, perché ci attendono – se saremo all’altezza del compito – anche nuove opportunità, “grandi guadagni”, non solo economici.
La temporanea riduzione della ricchezza di tutti – negli anni che seguiranno la crisi – che oggi tanto ci preoccupa, può essere sostenuta. Quello che non è sostenibile è una crisi economica accompagnata da confusione e meschinità politica e strategica, assenza di una identità e quindi di una visione e di un interesse nazionale: esattamente quello che ci affligge oggi.
“Mai sprecare una crisi” scriveva Churchill: la crisi post-emergenza sconvolgerà i vecchi equilibri politici internazionali e interni, spazzando via linee di frattura e proponendone di nuove, sollecitando – nel nostro paese – una radicale rimodulazione dell’offerta politica. Saremo pronti per questo appuntamento?
di Enrico Seta – politicainsieme