Perché le classi popolari, un po’ ovunque, prendono le distanze dai partiti di governo e in particolare dai partiti di centrosinistra che avrebbero il compito di difenderle? Semplicemente perché questi non le difendono più, e da un bel po’ di tempo.
Nel corso degli ultimi decenni le classi operaie e pensionistiche hanno subito l’equivalente di una duplice punizione, sia economica che politica. Lo sviluppo economico non ha certo favorito i gruppi sociali più svantaggiati dei paesi sviluppati e che i corsi politici non hanno fatto altro che inasprire le tendenze in atto, grazie alla deindustrializzazione (ascesa dei paesi emergenti) con cancellazione al Nord di posti di lavoro, poco e mediamente qualificati.
Dopo gli anni ottanta, la progressività dei sistemi fiscali è stata fortemente ridotta: i tassi applicati ai redditi più elevati sono stati massicciamente abbassati, mentre le imposte indirette che colpiscono i meno abbienti sono state gradualmente aumentate e le istituzioni europee, tutte orientate verso il principio di una concorrenza sempre più pura e più perfetta tra i territori e fra i paesi senza uno zoccolo fiscale, sociale comune, hanno a loro volta rafforzato la tendenza. Un fenomeno ben visibile se si considera l’imposta sugli utili delle società in Europa, il suo tasso è stato dimezzato, inoltre, le maggiori società sfuggono spesso all’imposizione del tasso ufficiale, mentre le piccole imprese si trovano a pagare tassi molto superiori a quelli sottoposti ai grandi gruppi detentori di grossi capitali. Più tasse, meno servizi pubblici.
Come stupirsi quindi se le classi popolari e ceti medi, le fasce più colpite che si sentono abbandonate pesano sul voto all’estrema destra, sia all’interno che all’esterno dell’eurozona. Che cosa fare allora? In primo luogo riconoscere che, senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà agli occhi dei più svantaggiati sempre più indifendibile. Vedere gli Stati Uniti che hanno saputo dar prova di una maggiore elasticità finanziaria nel periodo di crisi 2008 che ha portato la disoccupazione in maniera esponenziale e hanno saputo rilanciare la macchina in panne.
A bloccare l’Europa sono innanzitutto i vincoli antidemocratici: rigidità dei criteri di bilancio, regola dell’unanimità sulle questioni fiscali e ancor di più l’assenza di un investimento futuro. L’Europa dovrebbe investire in misura massiccia sull’innovazione, nei giovani e nelle università. Se non si trova alcun compromesso per rifondare l’Europa i rischi di una sua esplosione diventano reali. Per il loro miope egoismo, Germania e Francia, maltrattano il Sud Europa e, contestualmente, maltrattano se stesse. Con un’inflazione nulla e una crescita debole e con debiti incrociati anche loro impiegheranno decenni a ritrovare la capacità d’azione e sugli investimenti futuri. Considerando l’eurozona nel suo insieme, possiamo dire che ci possediamo a vicenda nel peggio.
Si sarebbe potuto pensare che le nostre istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, le politiche adottate nel loro complesso si adeguassero alla nuova realtà, chiedendo di più ai beneficiari del nuovo corso, per provvedere con maggiore energia ai gruppi sociali più colpiti. Invece è accaduto il contrario.
Aldo Cisi – Presidente Movimento Politico Italia