Fin dalla nascita delle cosiddette scienze economiche ( XVI secolo) gli specialisti discutono su quali condizioni quadro favoriscano il miglioramento del benessere collettivo. La teoria dominante (mainstream) dfa sempre oscilla tra due poli: da un lato coloro che vogliono dimostrare perché e dove il mercato fallisce e come ciò può essere corretto con interventi politici; dall’altro coloro che lamentano le restrizioni dei mercati e le loro presunte conseguenze negative sul benessere, invocando la liberalizzazione.
Le oscillazioni possono essere lette come una risposta agli sviluppi economici, sociali e politici. L’epoca d’oro, si interruppe bruscamente nel 2008, quando emerse che le banche e altri istituti finanziari, (scarsa regolamentazione del sistema finanziario) avevano gonfiato enormemente i loto bilanci. Keynes, nei patti di Bretton Woods, sosteneva che i persistenti squilibri all’ interno dell’Unione Fondo Monetario Internazionale e delle Banca Mondiale l’economia non doveva scivolare nella trappola della liquidità in cui i tassi di interesse sempre più bassi avrebbero spinto ulteriormente i consumatori verso il risparmio.
Egli aveva proposto che i Paesi in surplus condividessero la responsabilità dell’aggiustamento degli squilibri delle bilance dei pagamenti con i Paesi in deficit. Ai primi doveva essere imposto i loro surplus per favorire la ripresa altrui. Era un’ idea rivoluzionaria che gli americani respinsero. La mancata applicazione di questa regola gravita in peggio all’interno dell’Unione Monetaria Europea dove l’onere dell’aggiustamento è posto esclusivamente a carico dei Paesi in deficit che conferma che quella di Keynes è una via obbligata.
L’articolo 1 dello Statuto del FMI Indicava tra i compiti della politica economica la promozione di alti livelli di occupazione e di reddito che per l’ UE rimane una speranza. La teoria ora dominante, si scontra con la politica non solo sulla concezione della politica monetaria e finanziaria. L’inasprimento delle disparità reddituali e patrimoniali in diversi Paesi in seguito della crisi finanziaria del 2008 ha dato nuova linfa alle tendenze protezionistiche. La promessa di far riacquistare all’economia, alle imprese e ai loro lavoratori la (vecchia) “grandezza” attraverso l’imposizione dei dazi doganali ai prodotti della concorrenza ricorda molto il mercantilismo del XVI secolo. Questa convinzione ben difficilmente si affermerà tra gli economisti perché andrebbe a intaccare interessi economici consolidati quindi permangono incertezze sulla sua riuscita.
Nel frattempo, sarebbe auspicabile che nei paesi industrializzati anziché un grossolano protezionismo si affermassero le nuove conclusioni della microeconomia che supportate da dati empirici evidenziano come interventi mirati e intelligenti nel mercato del lavoro, nel settore della salute e dell’istruzione e nella politica ambientale siano capaci di incrementare la produttività e, conseguentemente, la ricchezza. In tutti i casi saranno necessari cambiamenti sul piano politico che da parte loro avverranno in risposta alla situazione economica corrente e aiuteranno l’affermazione di una nuova concezione dell’economia in parte ripresa dal passato e in parte nuova. Di fatto una nuova corrente: da un lato la capacità dei mercati di creare ricchezza e dall’altro si sostenga la necessità di interventi correttivi statali dove i mercati falliscono nel momento in cui si generano eccessive disparità.
Purtroppo però restano forti dubbi sul fatto che le attuali tendenze della politica possano sostenere tali soluzioni dettate dal buon senso e slegate da qualsiasi ideologia.
Aldo Cisi – Presidente Movimento Politico Italia