Sull’abuso del termine fascista come insulto nei confronti dell’avversario politico si è soffermato Paolo Mieli in un editoriale sul Corriere della Sera. Lo stesso Mieli ricorda che la Costituzione repubblicana nacque in un clima di unità antifascista dopo un ventennio di dittatura, il disastro della guerra e la lotta partigiana. La dodicesima disposizione transitoria, che sancisce il divieto di ricostituzione del partito fascista, ne fu la naturale conseguenza. Col tempo, l’uso della relativa espressione andò assumendo un significato diverso e sovente distorto, a causa della rottura del patto che riuniva tutte le forze politiche del CLN, in seno alla Costituente e nella maggioranza di Governo. Il PCI, passato all’opposizione, cominciò ad usare a scopo intimidatorio l’epiteto di fascista nei confronti di tutti coloro che considerava avversari, pur accettando contraddittoriamente l’esistenza in Parlamento del Movimento Sociale Italiano, che si richiamava idealmente al fascismo, anche se si è sempre riconosciuto nei principi costituzionali ed ha assunto comportamenti conseguenti. L’accusa di fascismo fu quindi usata prevalentemente dalla sinistra con leggerezza allo scopo di colpire soggetti che essa considerava fuori dall’unità antifascista, fondatrice della Repubblica. Infatti negli anni settanta, quando il PCI partecipò alla maggioranza di Governo cercò di denominare la relativa alleanza di unità nazionale costituzionale. Tale espressione impropria venne accettata dalla DC, pur non facendo parte della coalizione due soggetti del CLN: il disciolto Partito d’Azione ed il Partito Liberale, che, anche se modesta, aveva una presenza parlamentare. Gli osservatori più obiettivi pertanto correttamente diedero a quella maggioranza la denominazione di compromesso storico cattolico – comunista.
L’egemonia culturale esercitata per molti anni dal PCI sulla scuola, l’Università, il mondo artistico, letterario e cinematografico aveva determinato una pericolosa generale omologazione ed un appiattimento del confronto e della critica, come conseguenza di un atteggiamento intimidatorio nei confronti di coloro che dissentivano, i quali finivano col subire notevoli impedimenti di carriera o di successo. Le giurie dei premi letterari o cinematografici, gli organizzatori degli eventi culturali e delle grandi accademie, come delle più importanti mostre, erano sotto lo stretto controllo comunista. Il responsabile culturale del PCI, Mario Alicata, dopo aver demolito su Rinascita “Il Gattopardo”, capolavoro dell’aristocratico Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando ne fu decisa la pubblicazione in Russia e venne da Mosca il relativo “contrordine compagni”, dovette rimangiarsi il giudizio pesantemente negativo e scrivere una prefazione di segno opposto. La insopportabile supponenza di tale egemonia, vissuta come una differenza antropologica, finì col sottomettere per viltà anche la parte preponderante della magistratura, principalmente nell’ambito delle Procure. Tale condizione durò molti decenni, fino a determinare un vuoto improvviso nel mondo della cultura ufficiale, con la caduta del muro di Berlino, il crollo del socialismo reale e la conseguente drammatica fine del più forte ed organizzato partito comunista dell’intero Occidente. Un comprensibile riflesso di carattere sentimentale, avendo militato in quel partito, ha impedito a Paolo Mieli di andare più a fondo nella sua, pur acuta e condivisibile analisi, su una contraddizione terminologica, che aveva radici profonde ed andava al di là della semplice lettura semantica.
In effetti, oggi, a parte il folcloristico tentativo dell’On. Fiano del PD, che, nella scorsa legislatura, aveva presentato una proposta di legge con l’intento di superare le vigenti leggi Scelba e Mancino, per sanzionare con maggior rigore ogni evocazione del regime, fino a vietare di detenere o vendere nelle bancarelle i cimeli di quell’epoca, il sentimento diffuso è molto cambiato. In effetti, sarebbe venuto il tempo di prendere atto che lo spirito democratico e la unanime condanna del fascismo sono talmente acquisiti nella coscienza degli italiani, da poter avviare un processo di revisione legislativa, fino all’abrogazione della dodicesima disposizione transitoria come dimostrazione di maturità e riconciliazione nazionale. Un salto di qualità di questo genere consentirebbe di aprire un pacato, quanto necessario, dibattito sulla compatibilità costituzionale di posizioni populiste e sovraniste, che potrebbero nel tempo rappresentare un rischio effettivo per la normale dialettica democratica di un Paese che ama la libertà. Parlare dell’abolizione del divieto di mandato imperativo, previsto dall’Art. 67 della Costituzione, per trasformare i membri del Parlamento in semplici esecutori di ordini dei rispettivi partiti di appartenenza, significa attentare alla libertà ed autonomia del potere legislativo, (già oggi molto ridimensionata e mutilata) per renderlo servente rispetto a quello esecutivo, che sarebbe, a propria volta, nelle mani dei partiti. In effetti, una forte limitazione dell’autonomia del singolo parlamentare si è già realizzata attraverso le leggi elettorali, che si sono susseguite nell’ultimo quindicennio, togliendo all’elettore il diritto di esprimere il voto di preferenza, pur in presenza di sistemi proporzionali. Questo ha gravemente compresso il potere del corpo elettorale, chiamato esclusivamente ad esprimere la scelta fra i partiti, senza poter indicare il proprio rappresentante. Di fatto si è imboccata una strada che va in direzione del superamento della democrazia rappresentativa, per pervenire ad un sistema plebiscitario, poco conforme ai principi democratici, quindi illiberale. I sistemi elettorali delle democrazie più avanzate, anche se declinati in maniera difforme nelle diverse esperienza nazionali, prevedono soltanto i collegi uninominali o il proporzionale con preferenza. Ogni altro tentativo, (in Italia ne sono stato posti in essere diversi) tende a ridurre la sovranità popolare effettiva.
Altro tema pericolosamente messo in discussione in Italia e che caratterizza i sistemi democratici dell’Occidente libero, è quello della separazione dei poteri, garantita attraverso percorsi diversi: la elezione diretta popolare o la fiducia parlamentare per l’Esecutivo, la carriera per la magistratura, la Corte dei Conti, o la Banca d’Italia, procedure di nomina con sistemi democratici e garantisti per le altre Autorità indipendenti. L’attuale polemica contro chi non sarebbe stato eletto, (sarebbe più corretto parlare di nominati dai partiti) è fuorviante e frutto dell’ignoranza sul lungo percorso culturale e politico attraverso il quale si è arrivati a disegnare, dopo guerre, rivoluzioni ed un grande progresso del pensiero politico, gli Istituti delle moderne democrazie liberali.
di Stefano de Luca – Partito Liberale