Gli attacchi spesso inconsistenti e inventati al Risorgimento e all’Unità d’Italia nascondono solamente spocchia, supponenza e ignoranza
di Domenico Ricciotti
Ormai da anni che le celebrazioni per l’Unità d’Italia sono sottoposte a feroci critiche, con motivazioni troppo spesso antistoriche e preconcette, di nostalgici leghisti e pure filoborbonici. E anche quest’ anno il 17 marzo, oltre che messo in sordina, vista che è l’unica festività nazionale che non associa alcun giorno festivo, ha visto scatenarsi ovunque, ma soprattutto su Facebook, una serie infinita di critiche.
Da decenni gli attacchi leghisti hanno preso di mira l’Unità della patria italiana, al punto che per molti anni nessuno, neppure i presidenti della Repubblica (ad eccezione di Cossiga e Ciampi) e del Consiglio hanno osato più proferire quella parola “pericolosa” la patria, peggio ancora è andata alla parola nazione, cancellata dal gergo del politicamente corretto nella vulgata comunista, subita senza reazione alcuna dai democristiani, che ha sclerotizzato il sistema politico italiano fino alla corruzione. Lo stesso simbolo del partito comunista era una grande bandiera rossa che copriva, fin quasi a farlo scomparire, il tricolore. E i simboli sono da prendere sempre sul serio. Quindi è stata la volta della Lega Nord di Bossi che ha inventato un luogo e una nazione che non sono mai esistiti: la Padania e la nazione padana. Cosa mai avrebbero di più in comune i liguri, i piemontesi, i lombardi, i veneti, i trentini, i friulani, gli emiliani e i romagnoli, rispetto ad altri italiani? Lo provò a spiegare il professor Gianfranco Miglio, che per altro non ci riuscì.
Ora che la Lega Nord di Salvini si sta convertendo ad una sorta di confederalismo italiano, ecco che riprende vigore il mai sopito revanscismo meridionale filoborbonico.
E allora riprendono le solite menate sull’orecchio di Garibaldi. Non lo sapete? Eccovi una brevissima sintesi. Garibaldi, combattente allora prima per la causa della Repubblica riograndese (Brasile) e poi per l’indipendenza dell’Uruguay dall’Argentina, fu gravemente ferito da un colpo di fucile in combattimento ad un orecchio, al punto che rimase solo un moncherino del padiglione auricolare. Garibaldi allora si fece crescere, come era allora di moda, i capelli fino a coprirsi l’avanzo di orecchio rimastogli. E questo è storicamente documentato. Ma da ciò qualche infangatore di professione delle memorie altrui, quasi un propagatore congenito di fake news, ha pensato bene di cambiare la realtà dei fatti e, senza uno straccio di prova, ha affermato che all’epoca a chi rubava i cavalli (abigeato) gli veniva tagliato un orecchio; e siccome a Garibaldi mancava un pezzo d’orecchio, allora conseguentemente doveva essere per forza un ladro di bestiame, ovvero un delinquente. Ma le prove dove sono?
E questo è lo stile di chi critica il Risorgimento in blocco: siccome quel movimento era guidato da delinquenti, allora l’intero moto risorgimentale è un movimento delinquenziale che ha sottratto ai legittimi sovrani i loro giusti e progrediti regni.
Spieghiamo meglio cosa era l’Italia al tempo. Lo Stato della Chiesa, che dal 1815 cominciò a chiamarsi Stato Pontificio, era uno stato molto arretrato, benché Pio IX e il cardinale Antonelli cercarono di modernizzarlo, ma senza riuscirvi. Il Lombardo-veneto era più progredito ed economicamente avanzato, ma governavano gli austriaci. Il granducato di Toscana aveva il privilegio di far costare poco i suoi sigari. Ma il problema maggiore restava il regno delle Due Sicilie, così sopravvalutato dai filoborbonici. Bisogna però essere rigorosi. E’ assolutamente vero che nel Risorgimento vi furono pagine nere che hanno gettato un’ombra sull’intero moto, ma anche che gli sconfitti non furono i regnanti dell’epoca, eccetto i Savoia, ma anche Mazzini e Garibaldi, che che se ne dica.
I filoborbonici ci raccontano che nel meridione d’Italia tutto andava bene e che il regno era il più avanzato dell’intera penisola e ci ricordano la prima ferrovia, la Napoli Portici, i cantieri navali di Napoli, prima impresa pubblica, e le seterie di San Leucio. Bene! Si dimenticano però di spiegare che la ferrovia era ad uso esclusivo della sola famiglia reale, per trasferirla in assoluta sicurezza da un palazzo reale all’altro. Che i cantieri navali di Napoli lavoravano solo per la flotta del regno costruendo navi da guerra e non avevano altri appalti se non dallo stato. Le seterie di san Leucio a Caserta erano in funzione della sola corte borbonica. Il resto del regno era solo un insieme di latifondi mal coltivati da una classe di braccianti poverissimi. L’esercito era uno dei più numerosi d’Europa, così come la flotta militare, ma non avevano ufficiali e comandanti all’altezza. E sottolineando il fatto che il regno delle Due Sicilie era nato nel 1816, mentre la casa di Borbone governava il regno di Napoli e quello di Sicilia dal 1735. Quindi era sostanzialmente un regno ed una casa reale abbastanza giovane.
Ma come mai questo regno e questa casa reale, così amati dal popolo (!), caddero in pochi mesi e per opera di soli mille uomini ardimentosi, ai quali dettero un sostegno non indifferente i siciliani, i calabresi e i napoletani. Ecco, questo non ce lo spiegano i filoborbonici, ma quando un popolo non combatte per la propria patria e per il proprio governo, la sconfitta è certa. E Francesco II se ne rese conto.
Oggi, riportare indietro le lancette della storia e sognare un ritorno dei Borboni a Napoli, non è solo opera di fantasia, ma pura follia. In un’epoca in cui si tende ad unire, qualcuno vuole invece dividere senza alcun costrutto. Invece, bisogna operare perché questa operazione di unità vada a tutto vantaggio della maggior parte dei cittadini italiani, non di assurdi revanscisti. Uniti, c’è speranza per costruire un futuro migliore, divisi si perde sicuramente perché si vale poco.